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Medicina e Giustizia |
Dopo essere rimessa, per lunghissimo tempo, alla elaborazione giurisprudenziale, la disciplina della responsabilità civile e penale degli operatori sanitari è stata recentemente oggetto di un intervento normativo che, per la prima volta nella storia della nostra legislazione, mira a regolare questo delicatissimo settore attraverso previsioni di carattere generale tendenzialmente applicabili a soggetti che, a vario titolo, possono essere coinvolti nell’esercizio dell’attività medica.
Le previsioni in discorso sono, per la precisione, contenute nell’art. 3 della “Legge Balduzzi”, ovvero in quell’assai voluminoso e complesso provvedimento in materia di sanità introdotto con d.l. 13 settembre 2012, n.158, recante “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”, poi convertito con la l. 8 novembre 2012, n.189: e si tratta di previsioni che appaiono dunque caratterizzate, innanzitutto da una collocazione, a livello di “geografia normativa”, a dir poco curiosa, non essendo state poste, come senza dubbio avrebbe meritato, tra le disposizioni in materia di responsabilità civile e penale contenute nei codici, bensì, nel cosiddetto “decretone sulla sanità”, insieme a tutt’altre disposizioni.
Il primo dato che vale la pena sottolineare è che la finalità perseguita dal legislatore con l’introduzione nell’ordinamento dell’art. 3, ma anche dell’art. 3 bis, della “Legge Balduzzi” è sicuramente condivisibile, consistendo, come si legge nella Relazione illustrativa al d.l. 158 del 2012, in quella di contenere il fenomeno della cosiddetta “medicina difensiva”. In effetti, quest’ ultima, stando ad alcune recenti indagini, non si presenta più nei termini di quel semplice rischio che era stato avvertito ancora più di dieci anni orsono, ma costituisce ormai una concreta modalità dell’agire quotidiano dei medici nel nostro Paese, sempre più portati a prendere decisioni che non obbediscono tanto alla necessità di perseguire il bene del paziente quanto piuttosto all’intento di evitare di essere coinvolti in procedimenti giudiziari. E sempre più portati a tentare di non prender in carico pazienti e di non effettuare procedure diagnostiche o terapeutiche ad alto rischio mediante la limitazione della propria attività libero-professionale o lo spostamento di tali pazienti e procedure in un altro reparto o in un altro nosocomio.
La principale disposizione normativa che il nostro legislatore ha, allora, introdotto allo scopo di contrastare il fenomeno della medicina difensiva è senza dubbio quella contenuta nel comma 1 dell’art. 3 della “Legge Balduzzi”, il quale vorrebbe attenuare i profili di responsabilità, sia penale che civile, in cui possono incorrere gli operatori sanitari, disponendo che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.
E’ ancora evidentemente troppo presto per pronosticare quale sarà l’interpretazione delle disposizioni contenute nell’art. 3 della “Legge Balduzzi” che si imporrà nelle aule dei tribunali né quali saranno le conseguenza pratiche che la loro introduzione porterà dal punto di vista della lotta al fenomeno della medicina difensiva. Quello che appare già ora certo, peraltro, è che nel dettare nuove disposizioni in materia di responsabilità medica aventi l’obiettivo, che campeggia nella stessa intitolazione della “Legge Balduzzi”, di migliorare il livello e la qualità dell’assistenza sanitaria offerta nel nostro Paese, il legislatore si è, senza dubbio, troppo poco, preoccupato del livello e della qualità delle norme che andava introducendo nel sistema.
Le previsioni in discorso sono, per la precisione, contenute nell’art. 3 della “Legge Balduzzi”, ovvero in quell’assai voluminoso e complesso provvedimento in materia di sanità introdotto con d.l. 13 settembre 2012, n.158, recante “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”, poi convertito con la l. 8 novembre 2012, n.189: e si tratta di previsioni che appaiono dunque caratterizzate, innanzitutto da una collocazione, a livello di “geografia normativa”, a dir poco curiosa, non essendo state poste, come senza dubbio avrebbe meritato, tra le disposizioni in materia di responsabilità civile e penale contenute nei codici, bensì, nel cosiddetto “decretone sulla sanità”, insieme a tutt’altre disposizioni.
Il primo dato che vale la pena sottolineare è che la finalità perseguita dal legislatore con l’introduzione nell’ordinamento dell’art. 3, ma anche dell’art. 3 bis, della “Legge Balduzzi” è sicuramente condivisibile, consistendo, come si legge nella Relazione illustrativa al d.l. 158 del 2012, in quella di contenere il fenomeno della cosiddetta “medicina difensiva”. In effetti, quest’ ultima, stando ad alcune recenti indagini, non si presenta più nei termini di quel semplice rischio che era stato avvertito ancora più di dieci anni orsono, ma costituisce ormai una concreta modalità dell’agire quotidiano dei medici nel nostro Paese, sempre più portati a prendere decisioni che non obbediscono tanto alla necessità di perseguire il bene del paziente quanto piuttosto all’intento di evitare di essere coinvolti in procedimenti giudiziari. E sempre più portati a tentare di non prender in carico pazienti e di non effettuare procedure diagnostiche o terapeutiche ad alto rischio mediante la limitazione della propria attività libero-professionale o lo spostamento di tali pazienti e procedure in un altro reparto o in un altro nosocomio.
La principale disposizione normativa che il nostro legislatore ha, allora, introdotto allo scopo di contrastare il fenomeno della medicina difensiva è senza dubbio quella contenuta nel comma 1 dell’art. 3 della “Legge Balduzzi”, il quale vorrebbe attenuare i profili di responsabilità, sia penale che civile, in cui possono incorrere gli operatori sanitari, disponendo che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.
E’ ancora evidentemente troppo presto per pronosticare quale sarà l’interpretazione delle disposizioni contenute nell’art. 3 della “Legge Balduzzi” che si imporrà nelle aule dei tribunali né quali saranno le conseguenza pratiche che la loro introduzione porterà dal punto di vista della lotta al fenomeno della medicina difensiva. Quello che appare già ora certo, peraltro, è che nel dettare nuove disposizioni in materia di responsabilità medica aventi l’obiettivo, che campeggia nella stessa intitolazione della “Legge Balduzzi”, di migliorare il livello e la qualità dell’assistenza sanitaria offerta nel nostro Paese, il legislatore si è, senza dubbio, troppo poco, preoccupato del livello e della qualità delle norme che andava introducendo nel sistema.
di Michele Capasso