di William Colli
Il 9 Ottobre scorso è stato il 47esimo anniversario dell’assassinio di Ernesto “Che” Guevara. E’ passato quasi mezzo secolo, eppure in tantissimi ancora lo ricordano, ne parlano, ne discutono. Ci sono evidentemente tante ragioni compreso il fatto che, da sempre, è particolarmente amato dai giovani. E’ una figura che anch’io ho sempre apprezzato, perché è stata una persona capace di trasmettere speranza ai diseredati, alle persone che non avevano niente, nemmeno il diritto di esistere. Attenti però a non elevarlo a mito assoluto Tante ragioni rendono la mitizzazione inutile e scarsamente didattica. I miti non aiutano a capire, ma insegnano soltanto ad adorare acriticamente. I fenomeni sociali e politici, così come i personaggi storici, vanno studiati e capiti con i loro limiti e nelle loro ragioni. Un altro esempio lampante è il “maggio francese del ‘68”, mitizzato da una parte della sinistra. Fu certamente una grande mobilitazione di massa, ma i protagonisti di quelle contestazioni non riuscirono a stabilire un rapporto positivo con l’intera popolazione; non si fecero capire, commisero gravi errori, e il risultato finale fu una severa sconfitta elettorale della sinistra e una netta vittoria di Charles de Gaulle.
Se il maggio francese ci insegna qualche cosa, è che ogni manifestazione, ogni movimento popolare, deve mettere nel conto cosa fare e come agire per farsi capire dalla maggioranza della gente. Se ciò non accade, si dà sfogo ad un bisogno, si esercita un sacrosanto diritto, si dà testimonianza di un orientamento e di una presa di posizione, ma non si convince nessuno e non si incide sulle decisioni da prendere.
Nel caso del “Che”, bisogna capire tutto il suo pensiero, non soltanto qualche pezzo. Egli non predicava la rivoluzione armata come strumento privilegiato per dare diritti al popolo, ma la considerava uno strumento estremo. Nel 1959 scrisse il libro “La guerra di guerriglia” dove esponeva tutta la sua concezione politica. Se si studia attentamente quel libro, a quei tempi il più famoso scritto del “Che”, venduto in tutto il mondo con il “Che” vivo, in esso si fa una premessa estremamente chiara. Egli affermava: “…qualora un governo sia salito al potere attraverso qualche forma di consultazione popolare, fraudolenta o no, e si mantenga almeno un’apparenza di legalità costituzionale, è impossibile che l’impulso alla guerriglia si produca, poiché non tutte le possibilità di lotta politica si sono esaurite. …”.
E’ interessante constatare che Papa Paolo VI, circa 8 anni dopo, nell’enciclica “Populorum progressio” scrive: “…Rivoluzione - 31. E tuttavia sappiamo che l'insurrezione rivoluzionaria - salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese - è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri, e provoca nuove rovine…”. Come si può vedere si esprime in modo diverso sostanzialmente lo stesso concetto.
Una parte della sinistra italiana tendeva a esaltare la rivoluzione armata del “Che”, attribuendogli tesi e volontà che non ha mai avuto, nonchè a liquidare con supponenza il valore della “Populorum progressio”, senza capire che vi era un forte punto di incontro e senza capire che in Italia non si poteva prescindere dalla “questione cattolica” (come insegnava un grande intellettuale e politico, Antonio Gramsci), senza la quale non era possibile farsi capire dalla maggioranza del Paese. Per quanto riguarda il “Che”, purtroppo restò vittima più della sua indole guerrigliera che del suo pensiero politico. Evidente la contraddizione con l’aforisma riportato all’inizio. In Bolivia il “Che” fallì la sua missione, non tanto perché fu fatto prigioniero, ferito e poi barbaramente ammazzato, ma perché non ottenne nessun risultato politico. Leggendo il suo diario si capisce con estrema chiarezza l’isolamento in cui si era trovato. Non riuscirono minimamente a far scattare “l’impulso alla guerriglia” o alla sollevazione popolare, e giorno dopo giorno si avvicinavano alla sconfitta. La verità è che Guevara sbagliò l’analisi politica sulle possibilità di innestare un processo rivoluzionario in quel Paese. Probabilmente non vi è nessuna possibilità su quella via indicata. Possiamo approfondire gli studi ma, come abbiamo giustamente detto a George Bush, non si può esportare la democrazia con la guerra. Allo stesso modo non è possibile esportare la guerriglia solo perché in un Paese sarebbe ritenuta necessaria. Ogni Paese deve percorrere la sua storia conquistando il progresso con i propri leader.
Queste affermazioni non mi conducono a sottovalutare il “Che”, tutt’altro. Semplicemente non è opportuno mitizzarlo in modo acritico, anzi un’analisi obiettiva delle sue azioni e dei suoi pensieri lo rende più umano e politicamente più interessante, degno di essere studiato e non solo sventolato nelle bandiere o mostrato sulle magliette come una pop-star.
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"Bisogna agire da uomo di pensiero e pensare da uomo di azione" |
Nel caso del “Che”, bisogna capire tutto il suo pensiero, non soltanto qualche pezzo. Egli non predicava la rivoluzione armata come strumento privilegiato per dare diritti al popolo, ma la considerava uno strumento estremo. Nel 1959 scrisse il libro “La guerra di guerriglia” dove esponeva tutta la sua concezione politica. Se si studia attentamente quel libro, a quei tempi il più famoso scritto del “Che”, venduto in tutto il mondo con il “Che” vivo, in esso si fa una premessa estremamente chiara. Egli affermava: “…qualora un governo sia salito al potere attraverso qualche forma di consultazione popolare, fraudolenta o no, e si mantenga almeno un’apparenza di legalità costituzionale, è impossibile che l’impulso alla guerriglia si produca, poiché non tutte le possibilità di lotta politica si sono esaurite. …”.
E’ interessante constatare che Papa Paolo VI, circa 8 anni dopo, nell’enciclica “Populorum progressio” scrive: “…Rivoluzione - 31. E tuttavia sappiamo che l'insurrezione rivoluzionaria - salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese - è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri, e provoca nuove rovine…”. Come si può vedere si esprime in modo diverso sostanzialmente lo stesso concetto.
Una parte della sinistra italiana tendeva a esaltare la rivoluzione armata del “Che”, attribuendogli tesi e volontà che non ha mai avuto, nonchè a liquidare con supponenza il valore della “Populorum progressio”, senza capire che vi era un forte punto di incontro e senza capire che in Italia non si poteva prescindere dalla “questione cattolica” (come insegnava un grande intellettuale e politico, Antonio Gramsci), senza la quale non era possibile farsi capire dalla maggioranza del Paese. Per quanto riguarda il “Che”, purtroppo restò vittima più della sua indole guerrigliera che del suo pensiero politico. Evidente la contraddizione con l’aforisma riportato all’inizio. In Bolivia il “Che” fallì la sua missione, non tanto perché fu fatto prigioniero, ferito e poi barbaramente ammazzato, ma perché non ottenne nessun risultato politico. Leggendo il suo diario si capisce con estrema chiarezza l’isolamento in cui si era trovato. Non riuscirono minimamente a far scattare “l’impulso alla guerriglia” o alla sollevazione popolare, e giorno dopo giorno si avvicinavano alla sconfitta. La verità è che Guevara sbagliò l’analisi politica sulle possibilità di innestare un processo rivoluzionario in quel Paese. Probabilmente non vi è nessuna possibilità su quella via indicata. Possiamo approfondire gli studi ma, come abbiamo giustamente detto a George Bush, non si può esportare la democrazia con la guerra. Allo stesso modo non è possibile esportare la guerriglia solo perché in un Paese sarebbe ritenuta necessaria. Ogni Paese deve percorrere la sua storia conquistando il progresso con i propri leader.
Queste affermazioni non mi conducono a sottovalutare il “Che”, tutt’altro. Semplicemente non è opportuno mitizzarlo in modo acritico, anzi un’analisi obiettiva delle sue azioni e dei suoi pensieri lo rende più umano e politicamente più interessante, degno di essere studiato e non solo sventolato nelle bandiere o mostrato sulle magliette come una pop-star.