di Marcello de Angelis
“A fine d’o jurno sta tutta cca'" con queste parole pronunciate da Don Pietro Savastano poco prima di essere ucciso dal suo ex braccio destro Ciro Di Marzio, si chiude la seconda stagione di Gomorra, la fiction ispirata al libro di Roberto Saviano. Una frase che implica un intreccio di conflitti interiori degni di Shakespeare o della classica Tragedia Greca: un complesso intreccio di tradimenti, rancori e vendette per nulla edulcorati dall’amore, sentimento inesistente tra i personaggi di questo prodotto confezionato abilmente da una regia a più mani, ovvero Stefano Sollima insieme con Francesca Comencini, Claudio Cupellini e Claudio Giovannesi.
Con questa nuova serie di puntate gli sceneggiatori hanno assestato un duro colpo allo stomaco degli spettatori mostrando tutta la mostruosità della camorra e di chi ne fa parte: un vorticoso giro di anime perdute, assetate di soldi e potere che nulla hanno più di umano (nel senso più romantico del termine) e che sono pronte a sporcare le proprie mani del sangue di vittime talvolta colpevoli di tradimenti, talvolta innocenti, ma colpevoli di essersi trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Il tutto in una Napoli plumbea, pericolosa e oscura sul modello di Ghotam City, ma dove a differenza della fumettistica città, qui non c’è alcun Bruce Wayne pronto ad indossare un mantello. E la speranza è praticamente inesistente.
Dodici episodi ricchi di colpi di scena che hanno mantenuto alto lo standard del successo della prima stagione, tenendo incollati allo schermo oltre un milione e 200.000 spettatori, dove “il vecchio” e “il nuovo” si scontrano e si eliminano a vicenda. Non ci sono eroi, ognuno è vittima e carnefice di altri o di se stesso.
Con questa nuova serie di puntate gli sceneggiatori hanno assestato un duro colpo allo stomaco degli spettatori mostrando tutta la mostruosità della camorra e di chi ne fa parte: un vorticoso giro di anime perdute, assetate di soldi e potere che nulla hanno più di umano (nel senso più romantico del termine) e che sono pronte a sporcare le proprie mani del sangue di vittime talvolta colpevoli di tradimenti, talvolta innocenti, ma colpevoli di essersi trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Il tutto in una Napoli plumbea, pericolosa e oscura sul modello di Ghotam City, ma dove a differenza della fumettistica città, qui non c’è alcun Bruce Wayne pronto ad indossare un mantello. E la speranza è praticamente inesistente.
Dodici episodi ricchi di colpi di scena che hanno mantenuto alto lo standard del successo della prima stagione, tenendo incollati allo schermo oltre un milione e 200.000 spettatori, dove “il vecchio” e “il nuovo” si scontrano e si eliminano a vicenda. Non ci sono eroi, ognuno è vittima e carnefice di altri o di se stesso.

De Caro si è visto costretto ad intervenire sulla sua pagina Facebook per precisare le differenze, che dovrebbero essere ovvie, tra attore e personaggio: “Per me è stato durissimo interpretare quella scena, ma si tratta del mio lavoro, che faccio con passione. Fino a quando il pubblico vuole insultare Malammore faccia pure, ma non tollero le offese e le minacce nei miei confronti”. Ma le centinaia di messaggi positivi e di apprezzamento per l’ottimo lavoro attoriale svolto, postati subito dopo, hanno fatto diventare i detrattori una sparuta piccola parte.
Tra i commenti positivi possiamo leggere che: “Solo una massa ignorante vede in Gomorra una storia con cui esaltarsi, fare il tifo per Genny o per Ciro”. L’uccisione della piccolina è stata una genialata del regista, un modo per turbare gli animi più di quanto la serie già non faccia di suo, una precisa scelta per delineare negativamente tutti i presunti eroi in quanto nessuno di loro merita apprezzamento. E quelle ultime due puntate veramente ce li ha fatti odiare tutti.
Per Stefano Bises, il capo-sceneggiatore intervenuto sulla vicenda: “Quell'episodio è di pura fantasia, però, le reazioni sono interessanti perché dimostrano quanto la gente si sia lasciata coinvolgere dalla visione della fiction, tanto da sganciarsi dalla realtà e farsi trasportare all'interno di un universo totalmente di finzione”.
Racconta Fortunato Cerlino, il perfetto interprete di Don Pietro Savastano: “La seconda stagione ha approfondito maggiormente le psicologie dei vari personaggi e, a mio avviso, è servita anche per far capire che le esistenze di criminali come quelli raccontati da noi sono senza speranza e calate in un’infinita spirale di morte priva di vie d’uscita”. Infatti il lavoro è stato svolto con una tale angosciante verosimiglianza alla realtà al punto che difficilmente questa serie potrebbe rendersi colpevole di ispirare simpatie o spirito di emulazione verso i protagonisti, i quali magistralmente ci sbattono in faccia tutta la loro ferocia. Da questo punto di vista allora benvenga Gomorra e la spettacolarizzazione della criminalità, se può servire a mettere i camorristi dinanzi ad uno specchio che rifletta la loro stessa immagine.
E in quell’immagine vedere l’orrore, la solitudine, il continuo equilibrio instabile della loro vita distorta. È una illusione? Forse, ma “la speranza è anche quella che guardando come Don Pietro ha distrutto la sua vita e quella degli altri, i vari “Pietro” potenziali che vivono nella realtà, possano in ogni momento cambiare la loro vita” chiosa idealmente Cerlino dalla sua page.
Un pò come tentò di fare Luciano De Crescenzo, facendo dire al suo Professor Bellavista, durante un surreale colloquio con un camorrista “Ma tutto sommato, nunn’è che fate na vita ‘e merda? Perché penso io: Gesù sì, fate pure i miliardi, guadagnate, però vi ammazzate tra di voi, poi anche quando non vi ammazzate tra di voi, ci sono le vendette trasversali, vi ammazzano le mamme, le sorelle, i figli… Ma vi siete fatti bene i conti? Vi conviene?” Già, ce lo chiediamo in tanti, ma gli conviene?
Per Stefano Bises, il capo-sceneggiatore intervenuto sulla vicenda: “Quell'episodio è di pura fantasia, però, le reazioni sono interessanti perché dimostrano quanto la gente si sia lasciata coinvolgere dalla visione della fiction, tanto da sganciarsi dalla realtà e farsi trasportare all'interno di un universo totalmente di finzione”.
Racconta Fortunato Cerlino, il perfetto interprete di Don Pietro Savastano: “La seconda stagione ha approfondito maggiormente le psicologie dei vari personaggi e, a mio avviso, è servita anche per far capire che le esistenze di criminali come quelli raccontati da noi sono senza speranza e calate in un’infinita spirale di morte priva di vie d’uscita”. Infatti il lavoro è stato svolto con una tale angosciante verosimiglianza alla realtà al punto che difficilmente questa serie potrebbe rendersi colpevole di ispirare simpatie o spirito di emulazione verso i protagonisti, i quali magistralmente ci sbattono in faccia tutta la loro ferocia. Da questo punto di vista allora benvenga Gomorra e la spettacolarizzazione della criminalità, se può servire a mettere i camorristi dinanzi ad uno specchio che rifletta la loro stessa immagine.
E in quell’immagine vedere l’orrore, la solitudine, il continuo equilibrio instabile della loro vita distorta. È una illusione? Forse, ma “la speranza è anche quella che guardando come Don Pietro ha distrutto la sua vita e quella degli altri, i vari “Pietro” potenziali che vivono nella realtà, possano in ogni momento cambiare la loro vita” chiosa idealmente Cerlino dalla sua page.
Un pò come tentò di fare Luciano De Crescenzo, facendo dire al suo Professor Bellavista, durante un surreale colloquio con un camorrista “Ma tutto sommato, nunn’è che fate na vita ‘e merda? Perché penso io: Gesù sì, fate pure i miliardi, guadagnate, però vi ammazzate tra di voi, poi anche quando non vi ammazzate tra di voi, ci sono le vendette trasversali, vi ammazzano le mamme, le sorelle, i figli… Ma vi siete fatti bene i conti? Vi conviene?” Già, ce lo chiediamo in tanti, ma gli conviene?
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